DE BELLO LUDICO

2024

ProgettoILO Generale,Lex Arcana LEX ARCANA – AETIUS

LEX ARCANA – AETIUS

A volte un personaggio di gioco di ruolo sembra “spingere” la sua essenza al di là delle sue statistiche di gioco e chiede di raccontare la sua storia.

All’inizio è solo un’idea, come un frammento di conversazione captato per sbaglio. Poi accade la magia: da quel seme cresce tutta una storia, una vita intera. È quello che è successo con Aetius, il personaggio che interpreto nella nostra campagna di Lex Arcana.

Preso come personaggio pre-generato dal manuale, Aetius si è evoluto in maniera quasi indipendente dalla mia volontà. Le abilità in cui si addestrava, gli indigitamenta (le magie collegate agli dei di Roma) che imparava, servivano solo a ‘colorare gli spazi’ di un’immagine già abbozzata nella mia mente. Il personaggio esisteva già – io stavo solo scoprendo chi fosse.

Ora, con l’aiuto di Claude AI, ecco un insight di questo personaggio e un paio di ‘flash’ relativi alla difesa di Pinnata Castra contro un’orda di Pitti.

(Minas Tirith, scansati proprio: noi abbiamo vinto senza i cavalieri di Rohan, solo con le nostre forze…)

Nessuno conosce il vero nome di Aetius. Il nome che utilizza – evocativo e scelto con cura – significa “aquila”, e pare più un soprannome che un’identità. Un richiamo alla nobiltà, alla visione dall’alto, e al predatore che colpisce dall’ombra. Aetius è un uomo affascinante, socievole, abile a mettere chiunque a proprio agio… o a disarmarlo con un sorriso.

Aspetto e comportamento
Ben vestito, sempre impeccabile, Aetius si muove come se appartenesse naturalmente all’alta società. Le sue maniere sono raffinate, la sua cultura profonda, la sua parlantina sciolta. Ama il buon vino, le compagnie femminili e i giochi d’azzardo — sebbene sembri non perdere mai davvero. Dietro la maschera dell’edonista si nasconde però uno spirito vigile, freddo e calcolatore, addestrato a osservare, valutare e colpire.

Origini (presunte)
Alcuni sospettano che provenga da una gens aristocratica, forse caduta in disgrazia o finita nell’oblio per ragioni politiche. Altri sussurrano che sia cresciuto come allievo in una domus senatoria, dove ha appreso retorica, filosofia e armi, prima di scegliere una vita segreta nei ranghi della Cohors Arcana. Nulla, tuttavia, è certo. Ogni traccia concreta della sua infanzia o giovinezza sembra svanita, come se qualcuno avesse deliberatamente cancellato ogni prova.

Ruolo nella Cohors Arcana
Sotto la copertura ufficiale di Diplomaticus, Aetius partecipa a negoziati, banchetti e missioni di rappresentanza. Ma tra i ranghi della Cohors, è noto come uno degli Assassini più affidabili. La sua mira è leggendaria, i suoi colpi sempre silenziosi e precisi. Si muove come un’ombra, colpisce senza rumore e svanisce prima che la vittima tocchi terra.

Relazioni
Il suo fascino ha mietuto vittime ovunque: matrone annoiate, figlie di patrizi, sacerdotesse e persino nemiche. Le sue conquiste – spesso effimere, a volte sincere – si contano quasi quanto i suoi bersagli eliminati. Nonostante ciò, tra i compagni è rispettato e ritenuto leale: un uomo che non tradisce mai chi combatte al suo fianco.

Oggetto simbolico
Aetius porta sempre con sé un anello d’argento consumato dal tempo, semplice ma elegante, con inciso all’interno un nome quasi cancellato: Valeria Corvina. Una compagna nella Cohors Arcana, letale quanto lui, se non di più. Morì per salvarlo, durante una missione disastrosa. Si frappose tra lui e una lama avvelenata, e mentre moriva tra le sue braccia gli affidò quell’anello, pegno d’amore e promessa infranta.

Segreto personale
Aetius non ha mai smesso di amarla. Non fu colpa sua, ma non riesce a perdonarsi. Ogni missione è un modo per onorare il suo sacrificio. Ogni notte, quando gli altri dormono, lui rigira l’anello tra le dita e le parla in silenzio. Per il mondo è un libertino senza cuore. Solo lui sa che il suo è morto insieme a Valeria Corvina.

********

L’Ultima Vigilia

Pinnata Castra, confine settentrionale della Britannia

Notte prima dell’attacco

La nebbia britannica si addensava come un sudario grigio sulle mura di pietra. Aetius stava in piedi sul camminamento, le mani appoggiate al parapetto gelido, lo sguardo perso nell’oscurità oltre le fortificazioni. Là fuori, nascosti tra le brughiere e le foreste, migliaia di Pitti aspettavano l’alba. Aspettavano di travolgere quella fortezza come un’onda scura.

Dietro di lui, nel cortile, i fuochi del campo proiettavano ombre danzanti. Sentiva le voci dei suoi compagni del contubernium – qualcuno rideva, forzato, nervoso. Qualcun altro pregava sottovoce. Altri affilavano lame che erano già affilate, solo per avere qualcosa da fare con le mani.

Le possibilità erano chiare a tutti. L’esperienza nella Cohors Arcana aveva insegnato ad Aetius a valutare terreno, numeri, risorse. Aveva fatto i calcoli mille volte nella sua testa, da ogni angolazione possibile. Pinnata Castra era difendibile, ma non contro un’orda di quella portata. Non con così pochi uomini. Non senza rinforzi.

Poche possibilità. Forse nessuna.

Nessuno aveva bisogno di pronunciare le parole ad alta voce. Tutti sapevano leggere il campo di battaglia con la stessa lucidità spietata che la Cohors aveva forgiato in loro.

Aetius dovrebbe essere terrorizzato. O rabbioso. O disperato.

Invece, sentiva solo… pace.

Girò l’anello tra le dita – il gesto ormai così naturale che non ci pensava nemmeno più. L’argento era caldo per lo sfregamento costante. Il nome inciso all’interno era quasi illeggibile ormai. Valeria Corvina. Doveva concentrarsi per distinguere le lettere.

«Aquila mia, vola.»

Le ultime parole di lei. Un comando e una benedizione.

Per tre anni aveva tentato di obbedire. Aveva volato – o almeno ci aveva provato. Aveva ucciso, sedotto, riso, bevuto. Aveva fatto di tutto per sentirsi vivo. Ma era stato solo movimento, non volo. Solo il battito d’ali frenetico di un uccello in gabbia.

Forse aveva aspettato questo momento.

Chiuse gli occhi e si permise di immaginare.

L’alba sarebbe venuta. Le corna dei Pitti avrebbero suonato – quel suono gutturale e terribile che faceva gelare il sangue. Avrebbero colpito le mura come una tempesta. Lui avrebbe combattuto – oh, come avrebbe combattuto. Con la precisione letale che lo aveva reso leggendario nella Cohors Arcana.

Ma alla fine, il numero avrebbe avuto la meglio. Una lancia, forse. O un’ascia. Qualcosa di rapido, se gli dei erano pietosi.

E poi…

Poi ti vedrò.

La immaginava mentre lo aspettava. Non nei Campi Elisi – quelle erano fantasie per bambini e poeti. No, in quel limbo grigio tra la vita e la morte, in quell’istante sospeso dove il corpo ancora respira ma l’anima già si scioglie.

Lei sarebbe stata lì.

Con i capelli sciolti, come li portava solo per lui. Quegli occhi scuri che vedevano attraverso ogni sua bugia, ogni sua maschera. Senza armature, senza armi, senza il peso delle missioni e dei morti.

Solo Valeria.

E lui non avrebbe più bisogno di fingere.

Si vedeva camminare verso di lei attraverso la nebbia. Ferito, sanguinante, morente – ma sorridente. Davvero sorridente, per la prima volta in tre anni.

Lei avrebbe aperto le braccia.

Non avrebbe detto nulla – non ne aveva mai avuto bisogno. Il loro linguaggio era sempre stato fatto di sguardi, di tocchi, di silenzi pieni di significato.

Lui sarebbe crollato tra quelle braccia. Avrebbe posato la testa sul suo petto, come faceva nelle notti dopo le missioni difficili, quando il peso dei morti gli schiacciava l’anima.

Lei gli avrebbe accarezzato i capelli. Avrebbe baciato la sua fronte sudata e insanguinata.

E avrebbe sussurrato: «Finalmente. Finalmente sei tornato a casa.»

«Aetius.»

La voce di uno dei suoi compagni lo riportò al presente. Si voltò. Era Calpurnio, il più giovane del contubernium, appena ventun anni. Il ragazzo aveva la mascella serrata, gli occhi troppo larghi.

«Tutto bene?» chiese Calpurnio, con la voce che tremava solo un po’.

Aetius gli sorrise – quel sorriso facile e affascinante che aveva perfezionato in anni di menzogne.

«Tutto bene, fratello. Solo stavo godendomi la vista. Bellissima nottata, non trovi?»

Calpurnio sbuffò una risata nervosa. «Sei pazzo.»

«Probabile.» Aetius gli mise una mano sulla spalla, stringendo forte. «Vai a dormire un po’, se ci riesci. Domani ci servirà ogni briciola di forza.»

«E tu?»

«Io resto ancora qui. Qualcuno deve assicurarsi che quei bastardi Pitti non decidano di anticipare la festa.»

Calpurnio annuì e si allontanò, le spalle un po’ più dritte. Aetius sapeva di aver mentito – c’erano sentinelle ovunque, non serviva che lui montasse la guardia. Ma Calpurnio aveva bisogno di crederlo. Aveva bisogno di pensare che ci fosse un piano, una speranza.

Quando fu di nuovo solo, Aetius tornò a guardare la nebbia.

Tirò fuori l’anello dal dito – cosa che non faceva mai – e lo tenne nel palmo della mano. Era leggero, insignificante. Eppure pesava più di qualsiasi armatura.

«Valeria,» sussurrò al buio, alla nebbia, al nulla. «Mi hai chiesto di vivere. Mi hai fatto promettere di amare ancora. Ho provato, lo sai? Ho davvero provato.»

Il vento fischiava tra le pietre, unica risposta.

«Ma non sono mai riuscito a trovare la via d’uscita dalla gabbia. Ogni donna che ho toccato non era te. Ogni sorriso era falso. Ogni giorno era solo… sopravvivere.»

Strinse l’anello nel pugno.

«Forse ho fallito la tua ultima volontà. Forse ti deluderò anche in questo. Ma domani…» La voce gli si incrinò per un istante, appena percettibile. «Domani finalmente non dovrò più fingere. Finalmente tornerò da te.»

Nelle ore che seguirono, Aetius controllò le sue armi. Ogni freccia, ogni lama. Le sue mani si muovevano con precisione meccanica, addestrata da anni di disciplina nella Cohors Arcana.

Ma la sua mente era altrove.

Era in un vecchio tempio abbandonato, dove una donna dai capelli corvini gli passava una coppa di vino e sorrideva – quel sorriso raro come un’eclissi.

Era su un tetto sotto le stelle, dove lei gli aveva confessato per la prima volta di avere paura, e lui aveva capito di amarla.

Era tra le braccia di lei, in una notte rubata, quando avevano pianificato una vita che non avrebbero mai avuto.

Era nell’istante finale, quando lei morì guardandolo negli occhi e lui giurò promesse che non riuscì mai a mantenere.

L’alba arrivò troppo presto e troppo lenta allo stesso tempo.

Le corna dei Pitti echeggiarono nella valle. Un suono primordiale, selvaggio, che prometteva sangue.

Aetius salì sulle mura con gli altri. Prese posizione, freccia incoccata, occhi fissi sull’orda che emergeva dalla nebbia come demoni dell’Ade.

Accanto a lui, qualcuno mormorava una preghiera. Qualcun altro bestemmiava.

Lui non fece né l’uno né l’altro.

Sorrise.

Un sorriso vero, finalmente. Il primo in tre anni.

Perché per la prima volta da quella notte maledetta, non aveva paura della morte.

Anzi, quasi la aspettava.

«Aspettami, Valeria,» pensò mentre la prima ondata di Pitti colpiva le mura. «Sto arrivando. Finalmente, sto tornando a casa.»

L’anello brillò debolmente al suo dito mentre scoccava la prima freccia.

E in qualche parte di lui – la parte che non era morta con lei, la parte che era sopravvissuta solo per aspettare questo momento – sentì una risposta.

Una carezza sui capelli che il vento non poteva giustificare.

Un sussurro che nessun orecchio umano poteva udire.

«Ti sto aspettando, aquila mia. Vola verso di me.»

*************

Dopo la battaglia

Il sole sorgeva su un campo di morte e legno frantumato.

Aetius era seduto tra le rovine delle mura orientali, il pugnale ancora stretto nella mano destra. La lama era coperta di sangue scuro, quasi nero – sangue di Pitti, ma non solo. Tracce di linfa resinosa e schegge di corteccia si erano incastrate nell’acciaio. I giganti di Morcades erano crollati sotto i colpi delle balliste, sfaldandosi in una pioggia di rami spezzati e tronchi marci che ora coprivano il campo di battaglia come le ossa di un bosco maledetto.

Era illeso. Nemmeno un graffio.

Intorno a lui, i sopravvissuti si muovevano tra le rovine. Poco distante, Arminius – il germano possente del loro contubernium – era seduto su un masso, la sua ascia bipenne appoggiata tra le gambe. La lama era coperta di sangue e intaccata in più punti. Il gigante biondo si stava fasciando un braccio con movimenti lenti, metodici. Aveva falciato Pitti come grano maturo durante tutta la battaglia, e il suo corpo ne portava i segni – tagli, lividi, la stanchezza di chi ha combattato con forza bruta per ore.

Più in là, presso i resti di una delle balliste, Messalla controllava ossessivamente la sua fionda. Le sue dita tremavano leggermente – non per paura, ma per l’esaurimento puro. Aveva tirato con la ballista fino a quando le mura erano state abbattute, poi, quando i Pitti si erano riversati nella breccia, era passato alla fionda. Colpo dopo colpo, aveva continuato a combattere fino all’ultimo.

Il loro contubernium. Sopravvissuti, tutti.

«Aetius!»

Una voce con accento britanno lo raggiunse. Calpurnio si avvicinava barcollando leggermente, il volto pallido e coperto di sudore. L’augure si lasciò cadere pesantemente accanto a lui, respirando ancora affannosamente.

«Per tutti gli spiriti… ho corso… troppo,» ansimò Calpurnio, appoggiando la testa contro una pietra. «Pensavo… che i polmoni mi scoppiassero.»

«Sei ancora vivo,» osservò Aetius. «È già qualcosa.»

«A malapena.» Il britanno chiuse gli occhi. «Ho corso verso Artorio. Dovevo… dovevo aiutarlo in qualche modo. I presagi dicevano che era importante. Ma gli dei non mi hanno dato gambe veloci.»

Arminius si avvicinò, seguito da Messalla che zoppicava. Il germano guardò Calpurnio con un mezzo sorriso.

«Un augure che corre verso la battaglia invece di leggere presagi da lontano. O sei coraggioso o pazzo.»

«Pazzo,» disse Calpurnio senza esitazione. «Decisamente pazzo.»

Si sedettero tutti e quattro tra le macerie – quattro guerrieri esausti in modi diversi. Feriti, sfiniti, ma vivi.

«La tua ascia ha visto giorni migliori,» osservò Aetius, indicando la lama intaccata di Arminius.

Il germano grugnì. «Ha fatto il suo lavoro. Come sempre.» Accarezzò il manico con familiarità. «Ne ho uccisi… non lo so. Quando si combatte così, si smette di contare.»

«Troppe teste spaccate per ricordarle tutte,» concordò Messalla con voce stanca. «Dopo un po’ diventa tutto sfocato. Tiri, colpisci, ricarichi. Ancora e ancora.»

«La ballista ha fatto la differenza,» disse Calpurnio. «Ho visto quei giganti crollare. Senza di essa…»

«Saremmo tutti morti,» completò Messalla semplicemente.

Silenzio. Il vento fischiava tra le rovine.

Aetius girò l’anello tra le dita – il gesto ormai automatico, inconscio. Arminius lo notò. Il germano lo osservò per un momento, poi disse con quella franchezza tipica del suo popolo:

«Lo fai spesso. Quel gesto con l’anello.»

Aetius guardò il cerchio d’argento consumato. «Non me ne accorgo nemmeno più.»

«È consumato,» osservò Arminius. «Vecchio. Importante, immagino.»

Pausa. Aetius esitò, poi disse piano: «Apparteneva a qualcuno della Cohors. Qualcuno che… non c’è più.»

Arminius annuì lentamente, comprendendo senza bisogno di altre parole. «Per questo combatti come combatti.»

Non era una domanda.

«Forse,» ammise Aetius. «O forse è solo l’addestramento.»

«No,» disse Arminius fermamente. «L’addestramento ti rende abile. Ma quello che ho visto oggi… quello viene da qualcosa di più profondo. Viene da qui.» Il germano si batté un pugno sul petto. «Dal cuore. O dalla ferita nel cuore.»

Calpurnio, ancora ansimante ma più ripreso, guardò Aetius con quegli occhi da veggente.

«C’è qualcosa che ti lega a questo mondo,» disse il britanno piano. «Qualcosa di incompiuto. Lo sento nei presagi. Ecco perché sei uscito illeso.»

«O semplice fortuna,» disse Aetius, cercando di alleggerire.

«La fortuna non esiste,» disse Calpurnio con convinzione. «Solo il destino. E il tuo destino non è finito qui.»

Messalla, pragmatico come sempre, intervenne: «Destino o fortuna, sono contento che tu sia ancora in piedi. Il contubernium ha bisogno di tutti noi.»

«Già,» concordò Arminius. «Io con l’ascia, tu con il pugnale, Messalla con la fionda, Calpurnio con i suoi presagi folli.»

«Non sono folli,» protestò il britanno debolmente.

«Hai corso verso giganti di legno evocati da una strega,» disse Messalla asciutto. «È abbastanza folle.»

Risero – una risata stanca, quasi isterica, ma genuina. Il riso di chi è sopravvissuto all’impossibile.

Aetius guardò l’anello ancora una volta. Il nome inciso all’interno era quasi illeggibile ormai. Valeria Corvina. Ma non disse il nome ad alta voce. Alcuni dolori erano troppo privati per essere condivisi, anche con i fratelli d’armi.

«Era della Cohors,» ripeté invece. «Ci siamo addestrati insieme. Combattuto insieme. E poi…» Si interruppe.

«E poi è caduta,» completò Arminius gentilmente. «Come cadono i migliori.»

«Salvandomi,» aggiunse Aetius, la voce appena un sussurro.

Silenzio rispettoso. Nel contubernium, si capivano certi pesi senza bisogno di spiegazioni.

«Allora combatti per due,» disse Arminius finalmente. «Per te e per chi non può più combattere. Non c’è vergogna in questo. Tra il mio popolo, lo chiamiamo kampfschuld – debito di battaglia.»

«E tra i miei,» aggiunse Calpurnio, «diciamo che i morti camminano con noi finché non abbiamo completato ciò che loro hanno lasciato incompiuto.»

Aetius chiuse gli occhi. Vide il volto di Valeria – non quello morente, ma quello vivo. Il sorriso raro. Gli occhi che lo guardavano con amore e comprensione.

«Prometti… che vivrai. Che… amerai ancora.»

«Sì,» ammise, la voce appena un sussurro. «C’è qualcuno. Qualcuno che mi ha fatto una promessa. O piuttosto, mi ha fatto giurare una promessa che non sono mai riuscito a mantenere.»

«Giganti di legno,» disse Messalla improvvisamente, cambiando argomento con quella sua capacità di leggere quando la conversazione si faceva troppo pesante. «Chi avrebbe mai pensato…»

«Le balliste li hanno fermati,» disse Arminius. «E Artorio ha fermato la strega.»

«E noi abbiamo tenuto le linee,» aggiunse Aetius.

«Tenuto è già abbastanza,» concordò Messalla.

«E io ho corso fino quasi a morire,» disse Calpurnio con un sorriso stanco. «Non è glorioso, ma è qualcosa.»

«È più di qualcosa,» disse Arminius. «È coraggio. Anche se le gambe tremano e i polmoni bruciano, hai corso verso il pericolo. Gli dei vedono queste cose.»

Si alzarono insieme, lentamente. Arminius si appoggiò pesantemente all’ascia. Messalla zoppicava. Calpurnio barcollava ancora un po’. Aetius, illeso, camminava con loro.

«Domani ci sarà da ricostruire,» disse Arminius.

«Domani,» concordarono gli altri.

Ma per ora, c’era solo la stanchezza condivisa di chi era sopravvissuto.

Mentre si allontanavano insieme, Arminius mise brevemente una mano sulla spalla di Aetius.

«Porta quell’anello con onore, fratello,» disse il germano piano. «Chi te lo ha dato voleva che vivessi. Altrimenti non si sarebbe sacrificata.»

Aetius annuì, incapace di parlare.

Forse è questo che volevi dirmi, pensò Aetius, rivolgendosi all’ombra di Valeria che viveva nella sua memoria. Non che dovessi dimenticarti. Ma che dovessi ricordare cosa significa essere vivo. Anche quando giganti impossibili sfondano le mura. Anche quando streghe evocano foreste animate. Anche quando tutto dice che dovrei morire.

Voleva che vivessi, pensò. E io sto provando. A modo mio. Con questi fratelli. In questa guerra senza fine.

È abbastanza, Valeria? È abbastanza?

Il vento non portò risposta.

Ma il peso dell’anello al suo dito sembrava, per un momento, un po’ meno pesante.

Nota: Questo racconto è nato dalla collaborazione tra un giocatore e un’intelligenza artificiale, dimostrando che le storie migliori nascono quando lasciamo che i personaggi ci guidino, indipendentemente dagli strumenti che usiamo per dar loro voce.

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